foto di Renata Grzelczak Bonura docente dell'Istituto Comprensivo Gian Giacomo Ciaccio Montalto - Trapani
Giovanna Cucè
Giovanna Cucè nasce a Messina e qui si laurea in Scienze Politiche. La cronaca locale della “Gazzetta del Sud” è stata la sua “palestra” di giornalismo, dopo quella, meno metaforica, delle varie scuole di periferia in cui ha allenato l’altra sua grande passione, la pallavolo.
Nel 2008 la Rai bandisce un concorso per giornalisti: lo vince, diventa precaria e lì comincia ancora un’altra partita. Palermo, Genova, Roma, dentro le redazioni della Tgr, l’informazione regionale, quella più vicina alla gente e alle sue storie. Nel 2013 cambia squadra: approda al Tg1. La cronaca resta la sua “maglia”: giudiziaria e nera, soprattutto, in ogni angolo del Paese. Dalle alluvioni che cancellano vite e luoghi – in Sicilia, Liguria, Sardegna – ai terremoti, quelli che tra il 2016 e il 2017 distruggono Amatrice e parte del Centro Italia. Nel 2018 l’Ordine dei Giornalisti di Sicilia le assegna il Premio intitolato a Giuseppe Francese, figlio del cronista ucciso dalla mafia.
Si occupa dalle migrazioni nel Mediterraneo centrale al crollo del ponte Morandi passando dalle inchieste di mafia, come quella che la porta, con l’Associazione Antimafie Rita Atria, a trovare un nastro con la voce del latitante più ricercato, Matteo Messina Denaro, nell’archivio del tribunale di Marsala. Il documento fa parte del libro-inchiesta “Io sono Rita”, scritto assieme all’attivista Nadia Furnari e alla giornalista Graziella Proto, sulla morte della testimone di giustizia, Rita Atria. La partita continua.
Giovanna Cucè - Forum Mediterranean Women Journalist: FMWJ 2023 (giornaliste.org)
Ad aprile uscirà il suo nuovo libro “Il fazzoletto di Lenin” edizioni All Around.
Pubblichiamo il redazionale sul n.81 de LeSiciliane facendolo nostro.
La solidarietà alla Giornalista Giovanna Cucè è una solidarietà estesa a tutte le giornaliste e a tutti i giornalisti che ogni giorno si recano nelle aule di tribunali per difendere il diritto di cronaca e il diritto alla Memoria Collettiva - come recita la sentenza della Giudice Antonella Di Tullio del Tribunale di Roma. Come non ricordare dunque la storica frase del grande giornalista Giuseppe Fava ucciso dalla mafia il 5 gennaio del 1984.
Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza e la criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili. Pretende il funzionamento dei servizi sociali. Tiene continuamente allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo. Giuseppe Fava
Non può esserci il diritto all'oblio in un Paese che deve chiudere ancora i suoi conti con la storia lasciando aperte voragini di non risolti; ferite politiche e sociali ancora aperte e quindi attuali.
Oblio, come recita la Treccani, significa "Dimenticanza (non come fatto momentaneo, per distrazione o per difetto di memoria, ma come stato più o meno duraturo, come scomparsa o sospensione dal ricordo"...).
Noi, come Associazione Antimafie "Rita Atria" da sempre cerchiamo nel pozzo della Memoria la nostra storia che non può e non deve essere dimenticata perché "oggi" siamo le conseguenze di "ieri". Speriamo vivamente che questa sentenza possa aiutare altri giornalisti a rivendicare il diritto di cronaca contro chi vorrebbe mettere una pietra tombale sul passato che non passa. Che non può passare.
Come ci ha sempre ricordato il nostro socio storico, MarioCiancarella, "Ricordare non basta. Memoria è un ricordo "attivo" che vuole comprendere i meccanismi, le cause e dunque le ragioni che determinarono una storia, e sa rileggerle nel presente per capirne le "mutazioni" e le mimetizzazioni nelle forme nuove in cui quella stessa violenza torna e tornerà ad esercitarsi. Forme diverse sempre più evolute e sofisticate. [https://www.ritaatria.it/storie/]"
"La Memoria Collettiva" non si condanna
“Ancora oggi ci sono aspetti da chiarire e da indagare, circa la matrice terroristica eversiva e/o mafiosa della strage”.
Quarant’anni dopo c'è una giudice e c'è ancora una sentenza, una manciata di pagine che sono quasi un appello a non arrendersi, a non smettere di cercare in quella notte buia, l’ennesima, per la storia repubblicana: la notte del 23 dicembre 1984, la strage del Rapido 904, la bomba che fece 16 morti e oltre 200 feriti su quel treno che portava le famiglie da Napoli verso Milano a riunirsi per il Natale. La sentenza è della giudice del tribunale di Roma, Antonella Di Tullio, che ha condannato il camorrista pentito Giuseppe Misso nella causa contro la Rai e la cronista del Tg1, Giovanna Cucé, per un servizio trasmesso nel trentacinquesimo anniversario della strage.
Il risarcimento danni davanti ad un giudice era stato chiesto dall’ex boss con simpatie neofasciste, al tempo capo di uno dei clan più potenti della camorra, perché lo aveva ritenuto lesivo della sua immagine. La ragione? L’aver avanzato dubbi, posto domande sulle zone d’ombra. Misso (la “i” all’anagrafe per un errore di trascrizione) fu assolto per il reato di strage, ma condannato per detenzione di esplosivi. Non gli stessi della strage: mai nessuna sentenza è riuscita a provare alcunché su questo punto né la giornalista ha mai creato questo collegamento. Ma tant’è. Oggi non basta più nemmeno riportare fedelmente le condanne e la cronaca di quello che è stato.
“Il fatto che Giuseppe Missi nel 2007 si sia dissociato dalla camorra, diventando un collaboratore di giustizia, non inficia la verità dell’informazione diffusa nel servizio, ovvero che questi, all’epoca del processo per la strage fosse ‘il capo clan di camorra’: per costante giurisprudenza la verità della notizia diffusa va valutata con riferimento al momento in cui é stata divulgata, non potendo assumere alcun rilievo gli eventi successivi”
L’ergastolo andò a Pippo Calò, a suggello della firma di Cosa Nostra, con la mafia che così, sostengono le sentenze, tentava il ricatto allo Stato dopo gli oltre 300 arresti del Maxi processo. Ma sul banco degli imputati erano finiti anche camorra e politica: Misso, appunto, e l’allora deputato missino, Abbatangelo, pure lui assolto per l’eccidio, ma condannato per detenzione di esplosivi. Dunque, un deputato dell’estrema destra e un camorrista. La tipologia dell’esplosivo mai chiarita. La matrice mafiosa e un secondo o, forse, finanche un terzo livello di forze esterne che, a quella strage, hanno contribuito. Sono queste le zone d’ombra. Scrive la giudice:
“La questione sui perché della strage e sui poteri che l’hanno voluta è ancora oggi aperta e, dunque, di evidente attualità sia per la collettività che per i familiari delle vittime; il diritto alla conoscenza di questi fatti, compresa la vicenda processuale che, nonostante le assoluzioni, ha visto imputati per strage Giuseppe Misso (…) e il deputato del Movimento Sociale Abbatangelo, non può ritenersi limitato ad un contesto specifico, quale quello risalente alla data degli accadimenti narrati, come preteso dall’attore, visto il coinvolgimento in tale vicenda sia della criminalità organizzata che di esponenti politici e che ancora oggi ci sono aspetti da chiarire e da indagare circa la matrice terroristica eversiva e/o mafiosa della strage”
Il diritto di cronaca nella sua piena affermazione, dunque. Che in questo caso prevale su un altro diritto, quello all’oblio, rivendicato da chi chiedeva di dimenticare un’intera pagina di storia, com’era stato chiesto dall’allora boss.
“(…) si osserva che il caso di specie richiede un ragionevole bilanciamento tra il diritto alla protezione dei dati personali e il diritto della collettività alla complessiva conoscenza di questa vicenda che, per quanto detto, ha ancora un evidente rilievo nella storia repubblicana e nella memoria collettiva”
“Vittima viva tra le vittime morte”, si era definito Giuseppe Misso in un post sui social qualche tempo fa, parlando di calvario, di un’infamante accusa e sollevando la reazione sdegnata dell’Associazione che riunisce i familiari delle vittime, quelle vere però. Oggi una giudice rimette nel giusto ordine ogni cosa.
La redazione de LeSiciliane
n.81 LeSiciliane.