La casa di Sarina?
In fondo a quella salita. Una strada pendente e quasi scoscesa. Sulla curva incontra un muro con dei murales, è lì. Non può sbagliare…
Tutti sanno dove si trova la casa di Sarina Ingrassia, fondatrice
dell’associazione “il Quartiere”. La “sua casa” nel quartiere Baviera di Monreale è sempre aperta.
Accogliente. Il bisogno non è a ore, spiega sorridendo.
Alla fine della salita ecco il murales, una ripida gradinata porta ad una ballatoio stretto e lungo sul quale si affacciano due abitazioni.
Bussiamo alla prima e chiamiamo Sarina… non è lì, la porta successiva… dice qualcuno. Ci giriamo, un’anziana signora affacciata alla finestra dall’altro lato della strada. Sono abituati a vedere arrivare in questa parte piccolissima del mondo tante persone. Tanti ragazzi. Tante personalità. Grazie, e procediamo di qualche metro lungo la balconata. La porta è aperta:
Sarina! Avanti, risponde. Ci si abbraccia come se fossimo amiche da sempre. Affettuosamente. Ci accoglie. La stanza è ampia.
Particolare. Appena varchi la porta, sulla destra la cucina, un angolo cottura organizzato. Essenziale. La caffettiera a portata di mano. Quasi attaccata al lavello una credenza, più avanti un lungo tavolo con panche e sedie. Prende tutta la parete di fronte. Una specie di monumento, perché attorno a quel tavolo si svolgono gli impegni più importanti dell’associazione.
Seduti attorno, si mangia, si svolgono le riunioni, si fanno fare i compiti ai ragazzini. Si svolgono le riunioni con gli psicologi. Si ricevono i giornalisti, ci si mette a chiacchierare, si disquisisce di qualche argomento. Infine l’ultima parete, quella a sinistra entrando, è rivestita interamente da manifesti, cartelloni, ricordi, foto… locandine di altre religioni e di diverse filosofie. Di viaggi lontanissimi.
Un crocifisso e un Che Guevara.
Che stranezza, viene subito da pensare. Comunemente l’idea che si ha di chi è molto religioso non corrisponde esattamente a questo.
È strano vedere insieme persone e religioni così diverse. Quasi leggendo nel pensiero. Non so bene come definire la mia religiosità”, aggiunge. Poi dopo aver preparato il caffè poggia le tazzine sul tavolo e si siede. Guarda con gli occhi dolci. Il suo sguardo indaga con gradevolezza. Esamina.
La curiosità delicata di chi vuol capire per non sbagliare. Inizia a parlare e non si ferma più, sebbene frequentemente faccia delle pause.
Non si capisce se per prendere fiato o per organizzare le cose che deve dire. Una cosa è certa, non ci si sente sopraffatti. Il tono, i vocaboli, i fatti che racconta non stancano, la si ascolta con tanto piacere. Dopo quasi tre ore di conversazione siamo ancora lì a dialogare. Si è stancata? No, dice semplicemente che in fondo nella sua storia non c’è tanto da raccontare, da esaminare, da ammirare. “È accaduto... Non ho programmato. Io stavo con la porta aperta, chi apre la porta si trova fuori, la casa è la continuazione della strada”. Alla faccia dei boriosi.
Cresciuta e vissuta durante il fascismo, già nel ’48 Sarina era una ragazza che sognava di vivere in una comune. Vent’anni prima del ’68. Prima degli hippy. Altro che avanguardia. Ancora oggi, a ottantanove anni, ha la mente di una ventenne. E come una ventenne usa le tecnologie, dalla fotocopiatrice, al fax, al computer, a tutto. Ogni sera dalle dieci a mezzanotte risponde alle mail. Aperta, senza pregiudizi, disponibile. Verso gli altri, verso le novità. Nulla la scandalizza. Una vita dedicata agli altri, “ho trovato la mia ragione di vita nell’impicciarmi degli altri – dice ridendo –. Spesso la gente pensa: è in pensione e si occupa di volontariato… non è così, la mia è una scelta personale che risale agli anni giovanili. Non mi pento di nulla. Rifarei tutto, perché ogni volta ho scelto. Nell’essere altruisti, generosi… aiuta un po’ la natura, un po’ la famiglia aperta; mio padre era aperto e mi sosteneva. Da giovanissima io portavo il latte agli anziani, leggevo libri ad una maestra cieca, andavo a fare le iniezioni nelle case… e questo è un atto di incoscienza incredibile che ora non rifarei mai più”. Autodidatta. Aveva solo la licenza elementare. A causa della poca istruzione all’Azione Cattolica, presso cui faceva di tutto e di più – dallo spostare le sedie, ai dolci, al catechismo ai ragazzini, ad occuparsi degli anziani –, ha sempre avuto un complesso di inferiorità rispetto alle altre, un cruccio che però non intaccava il suo carattere estroverso, gaio e gioviale. Una umiltà che non ha mai perso, anzi, ha spronato la sua voglia di sapere, conoscere, capire. Riprende gli studi nonostante gli impegni del volontariato nell’Azione Cattolica. Diplomi, laurea, corsi di politica. Tanta politica! “... allora i comunisti erano il diavolo e quelli della chiesa acquasanta, poi crescendo mi sono spostata a sinistra-sinistra, fino ad uscire fuori dalla fila…”, ride con soddisfazione.
Anche i ragazzi volontari della casa fanno politica, studiano, si confrontano ed organizzano incontri. Lo stare in comune, in collettività era diventata un’idea fissa. Per spiegare allora, racconta di quando insieme ad altre ragazze dell’Azione Cattolica usciva di casa in pieno inverno alle sei del mattino, fra i brontolii delle mamme; “perché non abitiamo insieme così quando dobbiamo andare fuori non chiediamo permessi alle famiglie, siamo più liberi... – diceva sempre al prete o al vicario vescovile – i preti non mi capivano… abitare insieme…”. Nel ’48 capitò un prete che propose una comunità laica.
All’interno dell’istituto laico-religioso è rimasta dai venticinque ai cinquant’anni. “Io ci credevo nelle comunità, ci credo ancora. Però, quando il prete ha fatto scelte molto eclatanti me ne sono andata”. Durante le vacanze di Natale. Di notte. Assieme alle allieve che la pensavano come lei. Ritornare a casa? Piace a tutti avere la borsa con l’acqua bollente, le pantofole, la vestaglia, la minestra calda, le coccole… “mia madre ogni volta che io passavo da casa si faceva trovare nelle scale con il piatto colmo di minestra per farmi pranzare, ma avevo paura di imborghesirmi. Inoltre le tante allieve di altre province che frequentavano la scuola professionale femminile e prima alloggiavano nella comunità non avevano dove andare a dormire, perché quando ci fu la rottura col prete le famiglie le affidarono a me. Mi sono fatta prestare una casa popolare non usata, ci siamo procurati un minimo per dormire e abbiamo fatto il trasloco”. C’era un progetto? No. Lei ancora oggi diffida dei progetti. Perché secondo lei il progetto nasce dopo che si vive la realtà. Dopo qualche tempo dovettero restituire la casa popolare e dovettero cercare un nuovo rifugio. Lo trovarono nel quartiere Baviera. L’attuale sede.
Una casa modestissima dove furono felici di rifugiarsi. Era cadente, diroccata, fatiscente. I ragazzi l’hanno pulita, hanno rivestito le pareti di giornali, manifesti o iuta per nasconderne le bruttezze. Era molto piccola, un vano superiore dove sistemarono i letti a castello, e un vano inferiore che era la cucina-soggiorno dove si faceva – e si fa – di tutto. Riunioni, doposcuola, formazione, terapia psicologica, musica. Fra gli ospiti in quel periodo un gruppo di missionari con i quali si faceva attività sociale e un minimo di formazione. Cominciarono ad arrivare i primi ragazzi con problemi di droga. Spesso gli ospiti della casa si ritrovarono a svolgere una specie di pronto soccorso. “Sono stata felice. Il periodo più bello della mia vita”, dirà più volte Sarina. IL PRIMO PANCIONE Da allora da quella casa sono passate centinaia e centinaia di persone: a dormire, a restare, aiutare, essere aiutate. Imparare, formarsi, semplicemente andare a trovare.
“Padre Rocco Rindona di Santa Chiara era un salesiano molto popolare. Una specie di barbone. Camminava con la bicicletta e lo zaino. Ci scambiavamo i clienti – racconta Sarina con molta ironia – mi mandava i ragazzi drogati, le ragazze madri. Appena tu apri una porta non la puoi chiudere più – aggiunge quasi riflettendo ad alta voce – i poveri la spalancano, perché il bisogno non guarda orari, se sei stanca, se sei morta, se dormi. Chiamano ad alta voce. Una volta durante le feste di Natale avevo la sciatalgia e non potevo muovermi, avevo la febbre… Urlavano sotto al balcone”. Insomma in questo quartiere cominciò un via vai che nessuno si aspettava. Inizia la prima ragazza col pancione al quinto mese di gravidanza, che chiede ospitalità per una settimana, e invece rimase per tanto tempo. Allora c’erano ancora le studentesse, e quindi “quando veniva qualche loro mamma, la ragazza incinta la nascondevamo”. Dopo di questa, arrivarono a catena. Alcune restavano altre venivano sistemate altrove. Successivamente le studentesse se ne andarono. Rimasero solo le ragazze madri e le tossicodipendenti. “Premetto, non sono coraggiosa, sono una persona fifona, quando vedevo arrivare qualcuno, un caso nuovo, speravo che si fermasse all’altra porta, quella della vicina...”.
Quando vide Francesca, la prima ragazza col pancione? Mille dubbi. Mille interrogativi. Come si fa? Cosa si fa? Cosa era più urgente darle? “Se mi chiede un piatto di minestra e un letto, io non posso darle una pillola di Dio” si rispose da sola e da lì iniziò. Scoprirà di aver fatto la cosa giusta successivamente, studiando, viaggiando e visitando altre comunità. In tutti questi viaggi si trascinava appresso sempre gruppi di ragazzi affinché crescessero, imparassero. Che adesso questo non lo possa fare più, è uno dei suoi crucci. Per pagare le spese? Sarina allora insegnava a Trapani. Si partiva dal suo stipendio, per cui la luce e l’acqua non le tagliavano. “Abbiamo vissuto sempre sobriamente. I fondatori o gli ideatori, di un progetto, di un’idea, devono essere i primi a dare, lo fanno perché ci credono, invece oggi sono tutti ma-na-ger – dice scandendo la parola e ridendo con ironia – ma-na-ger, non mi appartiene. Si stava bene”, conclude. E racconta di una volta in cui hanno mangiato per una settimana di seguito zucca. “Ci avevano regalato un’enorme zucca, avevamo sposato una ragazza che proveniva dal carcere giudiziario e quindi… eravamo rimaste con nulla”. Anzi con la zucca. TAIZÉ, LA SUA RELIGIONE Nel ’73, subito dopo l’uscita dalla comunità, la crisi. La fede vacilla, si sente svuotata. Continua il suo impegno di accoglienza, ma qualcosa è cambiato. Non si ritrova con quella Chiesa che di fronte alla povertà rispondeva con conventi ristrutturati lussuosamente. Ritrova la sua strada sulla collina di Taizé dove la vita si svolgeva per le strade, al caldo e al freddo; in mezzo a tutte quelle baracche, dove tutto era ridotto all’essenziale riscopre il senso della sua vita. Un rapporto quello con Taizé e con i frères, importantissimo. Determinante. Continuativo ancora oggi. Nella stanza della preghiera della casa non trovi solo la foto “ufficiale” di Dio, Sarina ha troppo rispetto degli altri per non metterli a proprio agio. C’è un magnifico crocefisso, ma anche tante altre immagini, e cuscini sul tappeto. Ognuno prega a modo proprio. Lei personalmente prega innanzi ad un quadro di Greco. Un volto di donna teso verso il cielo, molto etereo, molto lineare, le ispira la preghiera. Grande, straordinaria Sarina. Stravagante? No. Come spiega lei, delle cose bisogna capire il messaggio.
“La scuola della gente” organizza incontri, con le donne del quartiere.
“Loro mettono insieme le loro esperienze, poi noi restituiamo riveduto e corretto tutto quello che loro dicono" – spiega la padrona di casa –. Hanno delle intuizioni incredibili. L’anno scorso per esempio è stato trattato il tema della diversità, di genere, di religione, di colore, di cultura. Facciamo intervenire qualcun’altro anche...Facciamo tutto ciò che è possibile fare per le famiglie, soprattutto curiamo l’aspetto psicologico.
Facciamo incontri, chi sente il bisogno poi può avere il colloquio personale. Da sempre abbiamo la ludoteca”. Si incontrano due volte al mese. Un incontro teorico-formativo, e uno di laboratorio.
L’obiettivo è stare insieme. Non importa se a far dolci, ricami, fiori di carta... Temi sempre diversi.
Hanno anche le macchine per cucire, una serie di chitarre. Lì al quartiere si fa tutto con allegria.
Brio. Leggerezza. “Ho scoperto che qui scaricano tutti i loro problemi dice, ed aggiunge: resto sbalordita”.
Il doposcuola ai ragazzini è un impegno quotidiano per lei e i ragazzi volontari che l’aiutano.
Attraverso le lezioni del pomeriggio la squadra di Monreale capisce il retroterra e i problemi che hanno i bambini. Uno diverso dall’altro. Una ha la mamma disturbata e ne rimane schiacciata.
È stanca, magra, piccina. Un’altra ha la mamma che vive per strada e stanno cercando di recuperarla facendole frequentare le riunioni, i figlioletti sono dispersi, distratti.
Un’altra ancora ha la mamma molto giovane, che non riesce ad imporsi e quindi la famiglia è senza regole… Ogni martedì sera il calcetto. Alcuni ragazzi volontari organizzano il calcetto con l’obiettivo di togliere i bambini dalla playstation o dalla strada.
Strutture sportive? “Non ne abbiamo. Il comune non ne ha. Ce ne sono alcune vicine ma i manager non ce li prestano. Una volta portammo a giocare i nostri bambini in un campo da tennis abbandonato e il vicino ci scagliò contro i cani. I bambini si sono spaventati. Tempo dopo il tizio è stato arrestato per motivi di mafia”.
Mafia a Monreale? Una porta sì e una pure. E la miseria impera.
“Nel ’92 in ricorrenza della scoperta dell’America ho seguito per tutta la penisola un gruppo di ragazzi brasiliani. Mi sono accorta che la mia realtà somigliava molto di più a quella brasiliana che a quella del nord Italia. La suora che accompagnava i ragazzi all’inizio non ci credeva, quando però ha girato nei borghi di Napoli, Palermo e altri centri siciliani, mi disse: hai ragione Sarina, la nostra è povertà, ma la vostra è miseria”.
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